Lo stato è una forza totalizzante, perficiente, di sottrazione d’ogni valore e sistema etico e morale dalle nostre variegate ecologie. Esso opera, arbitrariamente, secondo metodi e dogmi atavici, eteronormativamente patriarcali, basando la propria legittimità semplicemente sull’autorità della propria potenza violenta ed escludente, innovando quando dovuto. Insomma lo stato è un insieme di sistemi gerarchici, che impone societariamente il proprio caotico dettame per dirigere determinati gruppi etno-culturali, con varietà di abilità, genere e credo (o meno), in modo da perpetuare il proprio dominio.
La nazione è, in simil maniera, l’accezione che lo stato possa avere un’anima, un’identità variegata ma pur sempre dogmatica, inscindibile dallo stato e cuore pulsante del suo operato. Essa presuppone mitologie connesse in modo spesso confusionario e illogico, ma sacro, che in una sorta d’incantesimo divengono la storia di un miriade di popoli di cui le vere storiografie vengono cancellate per sovraimporre quella nazionalista, distruggendo tradizioni, spesso libertarie poiché genuinamente autoctone e comprese dall’intera comunità che le definisce.
Ora in termini economici lo stato, e poi in seguito anche la nazione, ha attraversato vari sistemi. A mio parere, dall’invenzione delle banche nel medioevo e la susseguente “eterealizzazione” della moneta, l’arrivo del capitalismo primordiale, del capitalismo industriale, del capitalismo statista e infine del neoliberismo autoritario, ha cristallizzato tale sistema economico come quello scelto dalla società nazionalstatista come modalità di riproduzione sociale.
Il motivo per cui lo Stato Nazione è in rotta di collisione con la propria implosione completa, trasformandosi ancora una volta in una nuova, terrificante, economia curtense (se non all’estinzione della specie umana), è che esso basa il proprio disegno sulla conquista e le divisioni, non solo degli animali umani da altri umani, ma anche sulla divisione e gerarchizzazione degli animali umani con le proprie culture ed ecologie; con gli altri esseri viventi.
Siamo forzatə a vivere in maniera completamente individualistica, pur essendo la nostra natura l’evoluzione di complessissime socializzazioni comunitarie e per lo più orizzontali. E questa forzatura, che già ci stressa e ci strappa dalla nostra natura, ci impone la gerarchia e l’autoritarismo come le uniche lenti attraverso cui interagire col mondo. Questo influenza anche le nostre azioni verso il resto dell’ecologia. Vediamo il cosiddetto mondo naturale come qualcosa da dominare e conquistare, selvaggio ed estraneo a noi, e la realizzazione che ciò non possa e non debba avvenire è purtroppo arrivata troppo tardi (una politica liberatoria vedrebbe invece l’intersecarsi delle libertà e responsabilità dell’individuo, con i doveri e le necessità della comunità attorno a esso).
Un tale sistema societario, che fa dell’assimilazione e dell’accentramento la sua raison d’être, implica, come fine logico, l’estinzione d’ogni altro Stato Nazione, seguendo la storia continua della guerra, e con esso l’assoggettamento o, in casi non così estremi, l’eccidio delle culture ed ecologie intrappolate all’interno dei confini attraverso la forza militare. Neanche eventi catastrofici come le guerre mondiali, nella seconda metà del ventesimo secolo, e i genocidi attuati e in atto nel neonato ventunesimo secolo, hanno fermato tale logica. La Guerra imperiale e coloniale è l’arte dello statismo e ne decide la sopravvivenza.
La società statista come tale ha radici millenarie, quasi preistoriche. Essa nacque da movimenti gerontocratici. Con la cosiddetta mentalità guerrafondaia gli uomini anziani instillarono nei giovani cacciatori nuove, putride, idee gerarchiche: una primordiale forma di classismo per poter meglio controllare i vari gruppi sociali, codificata in seguito in leggi, dalla figura del giudice e della sua forza armata; il patriarcato e le sue relazioni di potere e possesso, primo fra tutti il sistema debitorio del matrimonio, per costruire l’incubatrice del nuovo sistema di valori e metodi gerarchici; e infine la religione come sacralizzazione delle gerarchie di potere necessarie al mantenimento del nuovo statuto socio politico che si andò a formare.
Con l’abolizione delle pratiche matriarcali semi orizzontali che caratterizzarono l’era preistorica, attraverso l’instaurazione della prostituzione, forzata dagli uomini sacerdoti, delle donne e persone non eteroformate nei templi mesopotamici, si istituzionalizzarono i rapporti gerarchici di potere del genere. Questo è un punto saliente per la formazione del potere gerarchico: il patriarcato ne è diretto genitore, e questo va sempre sottolineato (una decostruzione transfemminista che sia davvero profonda non può prescindere da un antagonismo reale allo Stato e tutte le intersezionalità che convengono da esso e dal Nazionalismo).
Continuando sulle linee guida dell’autoritarismo: si vanno a trovare altre mostruose iterazioni. Il suprematismo europeo è uno degli imperatori, apparentemente quasi immortale, tra le oppressioni intersezionali. Grazie alla sua subdola natura, capace di nascondersi nei meandri più oscuri delle costruzioni sociali, ancora amaramente odierne.
L’abilismo, così spesso lasciato nel dimenticatoio delle cosiddette “lotte di movimento” è forse, a mio parere, quello più diffuso, specialmente in certe permutazioni della sinistra antagonista, fin troppo lavorista, attaccata a vecchi dogmi bolscevichi sulla necessità che ognunǝ di noi si stremi per spingere la produzione (mentalità, non solo sbagliata, ma quanto più pericolosa nell’era del Degrowth).
Quella che sembrerebbe essere una nuova analisi degli effetti della Società Statista sul pianeta, ma che invece ha una storia millenaria, è quella dell’antispecismo. Ora, la mia prospettiva svia da quella dei canoni oramai popolari nel movimento anarchico, ma su una cosa siam d’accordo: il resto della natura non può essere considerato come un prodotto, come qualcosa da possedere e di cui usufruire senza alcuna remora e rispetto per le conseguenze delle nostre tendenze e quindi del sistema sotto cui siamo costrettǝ a vivere.
È mia opinione che lo stato nazione stia morendo. Annaspando nell’infinito oceano della storia, il nazionalstatismo tenta con la sua ferocia di aggrapparsi a ogni cosa, compresi tuttǝ noi, e nella sua disperazione portarci negli abissi. Siamo di fronte a serie ininterrotte di “crisi” (così la propaganda autoritaria piace chiamarle per evidenziarle come casi eccezionali): crisi climatiche, sociali, economiche, geopolitiche. La guerra è una costante nell’immaginario collettivo per coloro che, nel cosiddetto occidente, ne sentono le ripercussioni solo in rari casi, e una realtà vivida per le persone dell’Asia Occidentale ad esempio. I confini vengono sempre più determinati da una feroce militarizzazione: l’ecatombe nelle acque del Mediterraneo da parte di Frontex, con la partecipazione degli schiavisti libici, o quella In Palestina ne sono esempi lampanti. Viviamo un’era di completo degrado morale ed etico, dove la morte è valorizzata il doppio della vita, in cui le due regole lapalissiane sono la sopraffazione e la violenza, e per cui i parametri socioculturali dovrebbero definirsi nei limiti del Ventennio, non solo nella cosiddetta Italia. Le persone così chiamate “comuni”, sistematicamente incapaci di liberarsi dai costrutti sociali autoritari, si ritrovano vittime e carnefici, quasi inconsapevoli, di tale violenza, divinando cause giusnaturaliste della miseria dilagante.
È anche mia opinione che ognunǝ abbia diritto a non vivere così, ad avere dignità, serenità, felicità e genuino amore per l’un l’altrǝ e il resto dell’ecologia.
Ed è quindi mia opinione che lo Stato Nazione, con tutte le sue membra, maggiore fra tutte il Capitalismo, debba morire, non noi.
Uccidiamo il Leviatano, prima che uccida noi.
Mario Di Domenico